Da bambino prodigio, ad essere posto dalla critica musicale tra i migliori chitarristi al mondo. E in mezzo sessant’anni di carriera, fatta di vita radicata nel tempo dedicato all’arte, espressa governando i cambiamenti socio culturali che edificano la storia della società. Parliamo di Ricky Portera, chitarrista e autore di canzoni, direttore artistico del Premio dedicato a Lucio Dalla, che proprio con Dalla ha condiviso un percorso umano e professionale di oltre trent’anni, radicato sull’autenticità di un rapporto umano fatto di incontri e scontri, basato sul bene reciproco e nel rispetto delle diversità personali e talento identitario. Difficile racchiudere in poche righe il contributo dato da Portera al successo di Dalla e alla storia della musica italiana, sia per aver prestato la sua arte ai più grandi artisti del panorama nazionale e internazionale, sia per le sue composizioni artistiche in musica e parole, e letterarie.
“In un momento storico di generale aridità culturale, promuovere l’umanesimo nell’arte musicale significa riflettere sul valore dell’uomo e dell’arte, quella vera, mossa da sentimenti ed emozioni. Le stesse che si respirano nella poesia, leggendo un libro o guardando un film mentre si ritrova se stessi riflessi nello specchio del proprio tempo”
Portera, quando ha incontrato Lucio Dalla, era il 1977. Lei eri già un affermato chitarrista radicato nel rock duro, dall’identità forte e ribelle, lui avrebbe imboccato, proprio con lei, la strada del grande successo con una musica diversa dalla sua vocazione. Cosa vi ha unito fin da subito e poi così a lungo per 33 anni?
“La tacita empatia del dare e avere, della comprensione, della stima, ma anche dell’accettazione e del rifiuto, sempre governati dall’affetto reciproco. Non si possono spiegare i tanti anni condivisi con Lucio, tanto meno i miei pensieri dopo la sua dipartita”.
Nel ‘dare e avere’ che cosa le ha dato Dalla e cosa ha dato lei in questo rapporto?
“Lui mi ha artisticamente insegnato a darsi per passione, non per velleità, che si traduce nella scelta di arrivare a se stessi nella creazione dell’arte. Perché se si riesce a farlo, si scopre un mondo immenso che nell’arte si traduce anche in ciò che un uomo non manifesta nella vita, ma sente nell’anima. E questo vale come più prezioso insegnamento per l’intera esistenza. Io ho dato la mia passione, maturata con lui sia come musicista d’identità nel ruolo della chitarra, sia come uomo che ha mantenuto fede alla sua autenticità senza piegarsi a falsità pur sapendo avrebbero potuto rendere più agevoli certi percorsi professionali. Anche se questo aspetto è stato motivo di litigi a volte, sono certo Lucio lo abbia sempre apprezzato”.
A dirlo c’è ‘Grande figlio di puttana’, brano scritto da Dalla per gli Stadio (di cui è stato cofondatore) e che a lei ha dedicato con straordinaria premura verso la sua mamma?
“Si.. dopo avermi fatto ascoltare quella canzone, Lucio ebbe la gentilezza di telefonare a mia madre per rassicurarla sul significato del titolo. Sia mamma che papà apprezzarono tanto il suo gesto. Sapevano che la canzone non poteva avere l’ombra dell’offesa per loro, ciononostante, l’accortezza del pensiero protettivo di Lucio verso la mia famiglia, espresse la straordinaria personalità che gli è sempre stata propria sia nel bene che nel male”.
Ha parlato di ‘aridità artistica’ di oggi. Cosa intende?
“Mancanza di creatività che nasce dai sentimenti di un uomo prima che di ogni artista. Proviamo a ricordare i testi di De Andrè, De Gregori, per fare qualche esempio oltre Lucio, le cui canzoni hanno l’impatto emotivo di una poesia, un libro. Parole che trasportano in immagini in cui rispecchiarsi e ritrovarsi, così intense da poterle vedere e toccare, tanto nelle descrizioni di ambienti quanto nei sentimenti. Chiediamoci da dove nasce quest’arte”.
Cosa manca all’arte di oggi?
“L’anima e il messaggio che si vuole comunicare con la musica. Ma senza anima, non esiste messaggio e non esiste arte”.
E’ nato artisticamente ribelle. A cosa si ribellava agli esordi della sua carriera, e a cosa si ribella oggi?
“Sono figlio del ’68, gli anni delle grandi rivoluzioni sociali. Ci si batteva per i principi della vita che fanno capo alla dignità e libertà degli esseri umani, affinché la coscienza sociale fosse viva per tutti. Lo si faceva anche attraverso l’arte dissacrante perché lo scopo era lanciare un messaggio di vita. Perché l’arte questo fa. Oggi non vedo nessun messaggio di vita dietro certe parvenze artistiche, così come non respiro emozioni. C’è una parte di cosiddetta ‘arte’ che inneggiare alla droga, alla violenza. Questo non significa parlare di vita, questa per me non è arte, non è cultura, ma sottocultura da cui mi dissocio”.
E’ a questo che si ribella quindi?
“Oggi la mia rivoluzione è quella che fa capo al mio credo, fondato sui valori umani, gli ideali, tutto ciò che riconduce alla dignità degli uomini contro certi principi esclusivamente edonistici. Promuovere un festival umanistico dell’arte, è già una rivoluzione. Non quella con l’esercito, ma quella che pone dinanzi alla realtà di questo tempo fatta sia di concezione disincantata che crudele dell’uomo. Da qui scegliere chi voler essere”.
Qual è quindi, secondo lei, il messaggio che l’arte dovrebbe diffondere nel nuovo umanesimo che stiamo vivendo?
“Quello di suggerire a se stessi e agli altri di svegliarsi da questa sorta di sonnambulismo, guardare in faccia la realtà, comprenderla senza cadere nell’accettazione passiva di condizioni stabilite a priori per noi. Scegliere e rifiutare pensieri e azioni, con responsabilità e coscienza”.
Dalla comunicava tutto questo?
“Si, con grande intensità emotiva, in musica e parole fuse nella sua complessa personalità”.
La canzone che preferisce di Lucio Dalla?
“Prima dammi un bacio”.
Perché?
“Ci sono tutte le emozioni che appartengono ad un uomo, che mentre passano, restano e lasciano l’impronta sulla vita”.